venerdì 31 maggio 2013

Da Platone a Galimberti: tutto quello che si deve sapere sull'amore.

Non è mai tardi, o presto, per parlare d'amore. Almeno una volta nella vita ci chiediamo cosa sia. Taluni hanno indagato a lungo su questa domanda, sono andati a fondo. Oggi mi piace parlare del Simposio di Platone, sviscerato da Umberto Galimberti nel suo libro: Le cose dell'amore, un testo che ho letto e amato tantissimi anni fa al primo posarci gli occhi.
Che cosa avevo capito dell'amore? Poco. Non l'avevo ancora conosciuto. Agli amici avevo regalato tante copie del Simposio, eppure nel tempo nessuno me ne aveva dato riscontro. Sono trascorsi gli anni, tanti anni.
Mi sono chiesta: "L'amore non è amato?", come diceva San Francesco? Sì, perché l'amore è mancanza.
Poi, un giorno arriva il filosofo Galimberti a fare chiarezza.
L'amore sta nel mezzo tra la nostra parte razionale e quella folle. I doni più grandi ci sono dati dalla follia. Secondo Platone ci sono quattro tipi di follia:
a) la follia profetica, che è vedere e parlare oltre il presente;
b) la follia dell'iniziazione, che è quella religiosa;
c) la follia dei poeti, che è la trasgressione del principio di non trasgressione    (parlare alla luna ad esempio, come fa Leopardi);
d) la follia d'amore, che è quella più alta ed eccelsa.
Se vuoi parlare d'amore ti devi spostare fuori luogo. Come faceva Socrate quando veniva colto da atopia. "Non so niente" diceva Socrate, "ma so d'amore, me l'ha insegnato una donna, perché la donna è al confine tra razionalità e follia". La donna raccontò a Socrate che Penia (povertà) e Poros (la strada) aspettavano sotto il tavolo gli avanzi di un banchetto, dopo aver mangiato fecero l'amore e nacque Eros. Figlio della povertà.
L'amore è mancanza, il desiderio di qualcosa che ci manca. La nostra parte razionale non dispone d'amore. L'amore è mediatore, traduce il linguaggio della nostra parte razionale per la nostra parte folle e viceversa.
"Mi fai impazzire" oppure "ho perso la testa per te", significa che grazie a te ho accesso alla mia follia, perché tu l'hai intercettata.
L'amore è generativo di soggettività, nella lingua greca esistevano il singolare, il plurale e il duale, una forma di linguaggio simbolico dei due amanti. Il simbolo è parte di un uomo. In un tempo remoto eravamo interi, dice Platone, ma Zeus temeva la potenza degli uomini e decise di tagliarci in due. Per questo motivo l'uomo cerca la propria metà parte, e mediatore di questa ricerca è l'amore. E l'amore ha bisogno di un'altra persona che ci accompagni in questa ricerca. Una persona speciale.
E quando l'amore sarà compiuto, quando usciremo dall'amore sia che vada bene o male, non saremo mai più come siamo stati prima.
Saremo meno lacerati dentro noi stessi. Perché per un breve attimo o per molto tempo, avremo trovato il tutto.

Michaela Menestrina


mercoledì 29 maggio 2013

È morta Franca Rame, il simbolo della lotta per la libertà delle donne.

Quando muoiono artisti così uno può dire solo “ciao”. Franca Rame non è stata solo la moglie di Dario Fo, la madre di Jacopo, una senatrice rispettosa delle regole, un'attrice che il palcoscenico non solo lo calcava ma lo mangiava, perché il palcoscenico era la sua casa da quando aveva 8 mesi. Franca Rame non è stata solo l'interprete di Mistero Buffo e di Morte accidentale di un anarchico, ma una delle sostenitrici di Soccorso Rosso Militante, quando spesso, i “rossi”, venivano presi a randellate (se andava bene!). Franca Rame è stata l'icona del femminismo, una delle sostenitrici più intelligenti e sensibili del movimento per la liberazione della donna, una vera e propria “guerrigliera” dell'anti-sistema e dell'anti-conformismo. Quarant'anni fa, nel marzo del 1973, venne rapita da esponenti dell'estrema destra che pensarono giustamente di violentarla, animali che non hanno mai subito una giusta punizione perché il processo, andato avanti per 25 anni, si è concluso con la prescrizione. Da quella esperienza nacque Lo stupro, una intensa piéce destinata a entrare nella storia del teatro politico-sociale. Da senatrice della Repubblica, come ha ricordato Barbara Pollastrini, è stata una rispettosa rappresentante del ruolo istituzionale che ricopriva. La sua permanenza a Palazzo Madama durò pochissimo. Quella politica, e quel modo di fare politica, a Franca Rame non piaceva.

martedì 28 maggio 2013

Addio Cuore Matto. E' morto Little Tony

Non è stato il cuore a tradirlo ma un tumore. Se n'è andato Antonio Giacci, in arte Little Tony, aveva 72 anni e una carriera incredibile. Lo abbiamo intervistato nel lontano 1997, al termine di una serata durata tre ore, durante la quale fece capire a parecchia gente con la spocchia e la puzza sotto il naso, come si sta sul palcoscenico. Perché Little Tony, era il classico “animale da palcoscenico”, pronto alla battuta, ma altrettanto pronto a snocciolare tutto un repertorio che non guardava solo al Pop, ma anche al Rock&Roll, al Country e al Rhytm'and Blues. Ripercorrerne la carriera di emigrato prima in Inghilterra, poi in America, per un ritorno trionfale in Italia tra Sanremo e Cantagiro, sarebbe inutile. Diciamo che, fino a poco tempo fa, era una delle voci più amate dagli italiani all'estero, quelli che non hanno dimenticato Cuore Matto e che vibrano ancora quando ascoltano Riderà. Quella sera, dopo il concerto in piazza, entrammo nella casa privata che fungeva da camerino, con la voglia di chiedergli un po' di cose della sua esibizione. Non ci fece fare neppure una domanda, partì a razzo raccontandoci la sua storia, la sua musica, il rapporto con i fratelli (musicisti anche loro) e con la figlia che lo accompagnava da corista. La fotografia che pubblichiamo, è la stessa che Little Tony dava ai suoi ammiratori. Volete sapere un piccolo aneddoto? Non ci fu verso di non fargliela firmare. Quella foto con dedica, che non gli avevamo chiesto, la conserviamo ancora da qualche parte, in qualche scatolone ancora chiuso dopo mille traslochi.  

Massimo Consorti

Pier Giorgio Camaioni presenta Pier Paolo Ruffinengo: "... a l'Università di Tinella". Al Fish di Grottammare

“…a l’università di Tinella”

Pier Giorgio Camaioni e Pier Paolo Ruffinengo alla presentazione di UT

Un’università un po’ “speciale”. Sta lassù in Piemonte. Vicino ad un torrente cortissimo, a boschi e a campi di grano. Ci andavano bambini fino a circa dieci anni ad imparare tutto, pure a far di conto. Chi la frequentava magari diventava bravo perfino in Metafisica… Una sola aula, con anche i giochi però. Fuori, passerotti, tanti, indaffarati, raccontatori…


“…a l’università di Tinella”
a cura di Pier Paolo Esterino Ruffinengo
(ed. Marietti 1820) 

Un libro insolito. Presentato davanti al mare. [A l’università di Tinella il mare non s’insegnava…]


Martedì 4 giugno ’13 ore 17,30

fish
villaggio di pescatori
Lungomare De Gasperi, Grottammare

domenica 26 maggio 2013

Clodoveo Masciarelli a Atri. L'universo nella molteplicità delle forme

Clodoveo Masciarelli è un artista che integra diverse discipline. È scultore, incisore, creatore di gioielli, indaga le forme nello spazio, nella dinamica del tempo. La sua opera si caratterizza per l'analisi approfondita della struttura, che è materia, forma, evidenza, vita. La vita è fondamentale, perché contiene la parte materiale, la trasformazione delle forme, il cambiamento, la permanenza della evoluzione. È un curioso nato, amante dell'esistenza, osservatore con rigore scientifico, esploratore dello spazio, studioso della natura, medico, artista plastico che approfondisce nei dettagli, nella propria ansia del cambiamento che racchiude una pleiade di segreti mondo del subconscio, dei pianeti e delle stelle lontane (…) Quando lavora l'acciaio e altri materiali, imprime loro una varietà di segni, icone, elementi e motivi che descrivono tendenze, evidenze, contrasti, cammini che ci conducono ad una varietà di oggetti, creando nuovi percorsi, che sono alternative specifiche di esplorazione di altri mondi. Nei metalli c'è traccia di vita, sfere, semicerchi, concavità, elementi geometrici vari, orme, tracce che il tempo sagoma (…) Questo si ripete nella produzione dei gioielli e nelle opere grafiche, con la sua attitudine di sommare gli elementi di diversi campi: il cosmo, l'universo, la biologia terrestre, le tracce di civilizzazione, gli impatti di meteoriti, il passare del tempo, la patina del tempo, il colore della vita, l'espressione del diverso nello sguardo delle stelle (…) Il silenzio della sua opera è il silenzio della pace che tutto avvolge. La pace dello spirito si appropria del marasma della vita contenuto nella sua produzione artistica, mostrandoci il contrasto come elemento di orientamento spirituale.

Joan Lluis Montané
Associazione Internazionale Critici d'Arte

Atri – Palazzo Acquaviva

fino al 25 giugno 2013

venerdì 24 maggio 2013

C'est si bon. Come PiGi Camaioni visse il concerto di Georges Moustaki nel 1998. Un "green fax" unico



Quando sul palcoscenico è apparso tutto di bianco, mi è venuta in mente la pubblicità del caffè Lavazza.
Mi vergogno, ma non posso farci niente.
Avendo gustosamente accostato - per sferzare gli assenti - cioccolato e merda (!), qualche responsabilità del "cattivo pensiero" potrebbe però avercela pure Gennari: scegliendo sempre cioccolata, chissà... per una volta... un caffè..
Ripeto: mi vergogno.
Moustaki come San Pietro però non è male.
Quando si stufa dei concerti magari lo assolda Lavazza.
Potenza della pubblicità, il teatro farebbe sicuro il pieno.
Non si sa mai!
"C'est si bon" meglio canticchiarla adesso, con lui, anche in pochi. Dolcemente. Resistenti.
Chi se ne frega se la poltroncina accanto è vuota.
... "Non je ne suis jamais seul
     avec ma solitude"...

22 maggio '98

P.G.C.

mercoledì 22 maggio 2013

ApeRarT 10100. Architetture abitate. A cura di Silvia Rosa




ApeRarT 10100
a cura di Silvia Rosa - in collaborazione con
l'Associazione Culturale ART 10100

Architetture Abitate
Mostra di Sandra Baruzzi, Guglielmo Marthyn e Ugo Nespolo
Mercoledì 29 maggio, ore 19.00
Art Hotel Boston di via Massena 70
Torino

Testi:
Sandra Baruzzi, Ivan Fassio, Daìta Martinez,
Ugo Nespolo, Silvia Rosa, Greta Rosso

Lettura performativa di Donatella Lessio
Video proiezioni di Sandra Baruzzi e Guglielmo Marthyn

Ingresso + Aperitivo
presso il Fibonacci Bar dell’Hotel Boston
10 euro

In omaggio a tutti i partecipanti una cartolina a tiratura limitata, sulla quale sarà apposto un timbro con matrice unica, ideato per l’occasione da Gepe Cavallero

domenica 19 maggio 2013

Francesco De Gregori I°, Papa. Riflessione postuma sui concetti di “oro” e di “ferraglia”


Nessun dubbio, specie dopo il concerto. Anche il nome giusto. Autorevolezza, riconoscibilità, esperienza, credibilità, sapienza (musicale), esempio, guida. Un papa moderno ma antico, anche se nerovestito e con bombetta, invece che bianco e con “saturno”. Un papa amico, un papamaestro. Povero no, certo popolare e amatissimo. Che ovviamente va in piazze stadi spianate arene e teatri, però fa pure dischi “che passati sulla testa fanno ricrescere i capelli”! L’unico “Generale”. Proprietario di una “gioielleria di canzoni”, con le porte sempre aperte. Eppur modesto, signorile: ”Guarda che non sono io”. Nessun “falso movimento”: eppur sempre “sulla strada”, “a passo d’uomo”, vicino a tutti. Lontano dalle mode, anzi pieno di classe e stile, direi da “belle époque”. E finalmente un papaitaliano di Roma, che quando canta “Viva l’Italia” sa davvero turbarti l’anima e farti incazzare, te tapino sfregiato e derubato, preso a tradimento, assassinato dai giornali e dal cemento, dimenticato, disperato, innamorato, metà dovere e metà fortuna… nudo come sempre, che con gli occhi aperti nella notte triste e scura [tuttavia] resisti… Un papa buono, semplice ed educato, che perfino “si scusa del ritardo” [15 minuti], come se fosse dipeso da lui lo stupido inceppo della stampa dei biglietti. Un papacomprensivo e tollerante, che non s’infastidisce più (come qualche anno fa anche da queste parti) se mitragliato con tablet e telefonini; che non ti morde se disturbato o peggio pressato mentre “lavora”. Anzi quasi ti benedice. Non si sarà arrabbiato neanche all’ingresso dell’orrido Panettone, dovendo passare e magari parcheggiare sotto le sterminate ferraglie zincate di pannelli solari. Terribili pezzi di ferro, peggio di pezzi di diossina. Pericolosi anche per la libertà mentale. Avrà solo pensato - poi ce l’ha pure cantato - “Ognuno è vittima e assassino”, “Ognuno è fabbro della sua sconfitta”… Certo, che se coprissero con pannelli solari tutta Piazza San Pietro (sì che può succedere), il suo Buonanotte fiorellino, per l’occasione magistralmente arrangiata a marcia di guerra, non sarebbe più l’affettuoso valzer che adoriamo…e addio santità per Francesco De Gregori…


Pier Giorgio Camaioni

sabato 18 maggio 2013

Esce "Questa non è la mia patria", l'ultimo romanzo di Vincenzo Maria Oreggia


“Dei diritti e dei privilegi”: potrebbe intitolarsi così il nuovo romanzo di Vincenzo Maria Oreggia, Questa non è la mia patria, incentrato sull’appassionata ricerca di una normale ma per nulla semplice serenità. Il tempo è quello presente, con il carico di incertezze e turbamenti tanto atmosferici quanto sentimentali, e la giusta dose di inquietudine. Teatro della vicenda è la nostra “povera patria”, crocevia di razze, speranze, fallimenti. Ad attraversarli è il giovane Juan José, detto Nevio, testimone esemplare di aspirazioni e legami dai nuovi volti: la sua storia di giovane immigrato prende le mosse da un paese, l’Ecuador, sul baratro della crisi finanziaria, per approdare a un’Italia agognata e ingannevole. Il viaggio di Nevio sarà soprattutto una discesa nelle profondità della propria anima: un percorso di crescita repentino e a tratti doloroso, che il giovane ecuadoriano, novello Dante, compirà al fianco di troppi Virgilio senza remore. Questa non è la mia patria è dunque un contemporaneo romanzo di formazione che porterà l’immigrato a fare i conti con una brutale, contorta realtà: sotterfugi, macchinazioni, inganni, un sottobosco di disperati e furbi preoccupati di mantenersi a galla in modo più o meno lecito. Ma Questa non è la mia patria è anche manifesto e preghiera per i molti Nevio che ci abitano silenziosamente accanto, i cui sogni, a lungo cullati, si infrangono contro l’oscuro e incomprensibile muro della burocrazia. 

Questa non è la mia patria
Galaad Edizioni - 206 pp.
13 euro

venerdì 17 maggio 2013

Politica culturale. Roma. Assemblea nazionale Assomusica. I risultati


Conclusa la ventiduesima Assemblea Nazionale Assomusica dal tema “Cultura e Solidarietà in Sicurezza”, svoltasi a Roma, dal 14 al 16 maggio, presso la sede nazionale Agis. L’Assemblea, presieduta dal Presidente dell’Associazione Vincenzo Spera, ha discusso e deliberato su una serie di punti, tra cui: il protocollo d’Intesa con ANCI; la Convenzione con Assoutenti; una Modifica Statutaria in merito alla Contrattazione Nazionale sulle tematiche del lavoro; la richiesta di riconoscimento giuridico dell’Associazione; la nomina dei nuovi Collegi dei Probiveri e dei Revisori dei
Conti.
Sicurezza, lavoro, cultura, ma anche riconoscimento giuridico, analisi dei costi degli spettacoli e dei biglietti, web marketing, sono stati alcuni dei temi al centro della ventiduesima Assemblea dell’Associazione Italiana degli Organizzatori e Produttori di Spettacoli Musicali dal Vivo.
“Lo spettacolo musicale dal vivo è cultura e l’intero comparto è una risorsa del Paese che esige maggiore attenzione da parte delle Istituzioni!”, ha affermato il Presidente di Assomusica Vincenzo Spera introducendo i lavori dell’assemblea. Grande partecipazione e interesse hanno confermato la vitalità di un’associazione che raggruppa la quasi totalità dei maggiori organizzatori e produttori italiani di concerti e spettacoli di musica popolare contemporanea; professionisti delle emozioni della musica dal vivo che, nonostante la crisi generale, continuano ad assicurare a milioni di spettatori, di tutte le età e fasce sociali, qualità ed elevatissimi standard professionali nell’organizzazione di eventi musicali.
La ventiduesima Assemblea di Assomusica è stata aperta dal Seminario dedicato al "Digital Music Marketing”, il mondo della comunicazione ad alta tecnologia al quale questo settore ha sempre rivolto la propria attenzione. Con Stefano Rocco, Direttore Marketing Rockit.it e Fulvio De Rosa, responsabile Web Marketing Assomusica, si è discusso dell’utilizzo dei social network nella promozione di eventi e spettacoli: “Web Marketing” come volontà di “creare business” attraverso i suoi strumenti, dal sito web all’utilizzo strategico di newsletter e social network.

Ascoli Piceno: Enrica Loggi conversa con Franca Maroni sulla poesia.


Nell’ambito dell’iniziativa “Scrittura al femminile nel Piceno”, a cura della Commissione Provinciale per le Pari Opportunità, si è tenuto ad Ascoli Piceno l’ incontro con la poetessa Enrica Loggi.
In dialogo con Franca Maroni, anche lei poetessa, organizzatrice dell’evento, e con un vivace pubblico, l’Autrice sambenedettese ha raccontato la sua esperienza letteraria dagli esordi di ragazza conquistata dalle sonorità del verso, dal “fabbricare” la poesia muovendo dalla propria umanità disarmata, come a un approdo nel porto salvifico della parola. Ha ricordato versi della sua adolescenza, poesie mosse dal vento giovanile che la spingeva nel mondo, dove avrebbe trovato accoglienza presso artisti e teatranti, fino all’impegno letterario vero e proprio, con la pubblicazione di “Vasto era il mare”, che siglava il suo sodalizio artistico col poeta umbro Franco Mancini.
Sarebbero in seguito nati dalla sua penna “Il seme della pioggia”, “Musica leggera”, “ Il talento dei giorni”, “Di acque e segni labili” fino all’attuale “… A una rima di vento” (Polistampa, 2012) da cui Enrica ha letto alcune liriche prima di addentrarsi in un colloquio più stretto con la Maroni stessa circa il ruolo della poesia, la sua origine e il suo riservatissimo posto nella società. A questo proposito sono tornati alla memoria i versi ungarettiani di “San Martino del Carso”, a sottolineare il quoziente intimamente lirico anche della poesia civile. Particolarmente rimarcato il rapporto filiale della poetessa con la natura, ispiratrice al pari del proprio intimo silenzio, di versi come:

I poeti sono soli
col loro inverno
le scarpe bianche per uscire la domenica
le ali stropicciate…

Parole che suonavano, inermi e insieme appassionate, nella Sala del Consiglio del Palazzo della Provincia, severo e solitario, decorato nel soffitto dalle “Quattro stagioni” del Ferri, un coreografico spunto d’arte e fantasia tra sedili austeri.

Il cappello dell'attore. Nota poetico-critica di Alceo Lucidi sul concerto di Francesco De Gregori


Una vaga atmosfera fumosa mi avvolge mentre trepidiamo per l'arrivo di De Gregori. Un misto di emozioni mi accompagna. L'incontro con un musicista che non ho ancora visto dal vivo ma che ha scandito alcune tappe della vita di questo paese nell'arco di oltre quarant'anni. De Gregori e la contestazione politica e dei costumi. De Gregori e il senso di appartenenza ad un progressismo di sinistra svigorito dal tempo e i compressi. De Gregori e le storie di uomini piccoli e grandi, coraggiosi eppure così comuni, figli di un grande destino o solitari e forgiati dalla Storia. 

Le luci si abbassano e gli artisti sfilano nella penombra: sono tanti attori del rito sempre nuovo della musica che rinnova i suoi linguaggi ed affina i suoi strumenti per dispensare emozioni e coinvolgere, unire, abbattere barriere. Eccolo De Gregori, capitano di un mare sterminato di canzoni e suoni. Ci viene incontro come un viaggiatore pronto a riabbracciare i suoi amati compagni, a rivedere i posti di sempre.Elegante, dinoccolante, sciolto e sicuro sui lunghi passi dell'uomo che ha molto viaggiato, il cantante e' pronto per l'abbraccio con la scena. Smaliziato se ne fa cullare con noncuranza e freschezza di accenti. La faccia serrata da occhiali scuri, il volto dalle fattezze impenetrabili, si dimostra invece prodigo di gesti e parole. Parla del suo nuovo album con sottile ironia che riscalda e ne smorza benevolmente il mito, sempre mantenendosi misurato e riflessivo. Ha carisma ed eleganza da vendere, toni alti e pieni, quelli che mancano al nostro paese riempito di pseudo-intellettuali ,che non perdono mai tempo per incensarsi.
De Gregori può essere anche pungente con sé stesso, indulgere apiccole confessioni e restare sempre se stesso, un uomo che vuole stare assieme agli altri, uno scrittore che arriva a certe altezze poetiche, ma non le rivendica, mescolandole invece alla carne ed il sangue delle pene dei giorni. 
Quando apre lo scrigno dei suoi ricordi la voce è ancora più tramata da un insondabile passione. La gentilezza si fa canto ed assurge ad empiti di tatto misurato, di empatica, scanzonata vicinanza. 
Allora penso che De Gregori si fa grande non sono solo perché ha una voce carezzevole e speciale, tecnicamente precisa, tagliente fino all'inverosimile, no De Gregori è il compagno che ti siede accanto e ti può anche suggerire, ma che prima ancora ti incontra e ti da una pacca sulla spalla invitandoti a prendere un bicchiere. E' l'attore di una scena più grande con una valigia sempre pronta, come si è autodescritto, in continuo divenire, che ti saluta con una promessa di ritorno accennata da un sorriso appena sbozzato sulle labbra che non sai se sa di beffa. Allora penso a Dylan riflesso in De Gregori: lo vedo nel suo modo di fare, in quel cappello da fuorilegge dell'amore, dal destino erratico e tutto da inventare. Cita Dylan sotteranemente ma il suo bisogno di rivendicare le storture è anche figlio di quello spirito libertario e dalle tante forme artistiche del cantastorie americano. 
Sfugge alle regole questo nostro italico saltimbanco, come potrebbe essere altrimenti, e soprattutto stringe a se più generazioni: contestatori impenitenti, giovani innamorati, sognatori imperterriti, anime anarcoidi ed innamorate della verità dell'uomo.

Alceo Lucidi

sabato 11 maggio 2013

Soldati scrittore di viaggio, o dell’umanità dell’arte


The very nature of happyness is fugacity […] Happyness is a God who roamsthe world in disguise, seeking shelter, now under this roof, now under that.
(Henry Furst)

Costretto nella classica isola deserta del “giocherello da letterati”, Soldati non porterebbe con sé Dante, né Petrarca, né Leopardi, ma l’Orlando furioso dell’Ariosto. “Poeta dell’Umanità” più ancora che “dell’armonia” come vorrebbe una certa vulgata critica, oltre a divertire, per Soldati, Ariosto dispensa una lezione capitale: che “la nostra letteratura non è tutta sublime e inaccessibile, perché ha almeno un libro sublime proprio per la sua travolgente umanità” [785]. Un discorso su America e altri amori, terzo volume dei “MeridianiMondadori dedicato ai diari e gli scritti di viaggio di Soldati, potrebbe cominciare da qui, da questa breve nota d’occasione che è in realtà già l’analisi interpretativa di tutta l’opera, nonché una cristallina dichiarazione di poetica. I reportages di viaggio più ancora che i romanzi e i racconti brevi, infatti, sono il riflesso di questo amore per l’uomo e il suo “fare” che arricchisce - rendendolo “gentile” e “umano” - il mondo. E si prenda, a mo’ di esempio, nell’Introduzione di Vino al vino, la descrizione dell’enologo Pietro Garoglio: “Piemontese antico e toscano nuovo, figlio del poeta Diego Garoglio, mi si rivelò come un animo semplice, vivissimo, schietto, gentile; e mi offrì così, con tutto se stesso, la più bella prova dell’umanità del vino” [407]. E “schietta” e “semplice”, ugualmente lontana dal belletrismo come dalle ingegnose difficoltà della neoavanguardia, è anche, fino all’ultimo, la prosa di Soldati, nei ritratti degli osti come nelle descrizioni di paesaggio; lievissima e sensuale, mai caricata, nelle rimemorazioni di fugaci incontri amorosi (e si veda l’episodio, bellissimo, alla dogana di Breil nel viaggio verso Lourdes).
Lo sguardo di Soldati viaggiatore è sempre a fuoco: egli tutto vede e tutto annota, del proprio io e degli altri, del mondo interiore come di quello esteriore. E da tutto prende spunto per ragionare sull’esistenza concreta dell’uomo, sul suo vivere quotidiano e i suoi sentimenti. Con uno stile in cui la ricerca del mot juste serve alla costruzione di periodi ariosi ed equilibrati, la prosa di Soldati segue senza sforzo apparente i mille rivoli del pensiero e le innumerevoli sensazioni di viaggio; si sofferma con eguale leggerezza e precisione a notare un cinghietto da polso di “cuoio, punteggiato di bulino” o a ragionare sui misteri e le oscillazioni della fede.
D’altro canto, un tale sguardo sa sempre ritrovare l’incanto e lo stupore della prima volta: è uno sguardo che seduce perché si lascia sedurre da un paesaggio verdeggiante, da una parlata regionale, o dalle spalle nude e il riso vivace di una ragazza incontrata per caso e mai più rivista. Perfettamente settecentesco, per Soldati il ragionamento nasce solo a seguito della sensazione, ed anzi questo (ragionamento) è già contenuto in nuce in quella (sensazione).
America e altri amori interessa, però, anche come esempio spesso già perfettamente compiuto di una narrativa che, attenta al dato reale, contamina il romanzo con altre forme di prosa quali l’autobiografia, il saggio sociologico e culturale o l’articolo giornalistico. Si tratta - e benissimo fa Falcetto a sottolinearlo nella sua Introduzione - di una “seconda grande linea di sperimentazione della scrittura novecentesca” [XXVI]; una linea, aggiungerei, che è ben lungi dall’essere esaurita e conosce invece oggi una nuova fioritura, in Europa come negli Stati Uniti. Anzi: oltreoceano la creative nonfiction, canonizzata in genere a sé, sembra ormai mettere d’accordo critica e mercato. Dove la prima celebra (giustamente) memoires quali The Year of Magical Thinking di Joan Didion, A Widow’s Story di Joyce Carol Oates, o ancora i volumi di literary journalism di Gay Talese, il secondo ne fa dei best-seller.
Mi limito, per concludere, ai confini nazionali: più ancora che servire da intertesto o esercitare un’influenza diretta, oggi i “reportages esistenziali” (Falcetto) di Soldati indicano soprattutto una direzione possibile per rivitalizzare la forma-romanzo: quella di una letteratura in cui sperimentazione e comunicabilità non si escludano, ma riescano ad armonizzarsi in vista anche del piacere del lettore. Una letteratura, direbbe forse Soldati, semplicemente “umana”; e un piacere che il terzo “Meridiano” a lui dedicato rinnova, per noi lettori, pagina dopo pagina.

Raffaello Palumbo Mosca 


“La nemica” di Irène Némirovsky. La nostra recensione


Vale comunque la pena leggere La nemica (Elliot, 2013). Di Irène Némirovsky si tratta. Scrittrice di talento (penso a lavori intensi come Suite francese e allo stupendo e controverso David Golder), oltre che donna complessa e contraddittoria. Ucraina d'origine, naturalizzata francese; di padre ebreo (come lo sarà il marito); pungente critica nei confronti di certi aspetti della cultura ebraica – il che in epoca post-Shoah non è certo gentilmente concesso –, dunque imbarazzante se non scandalosa; tanto più che è ebrea lei stessa, con l'aggravante di essersi convertita al Cristianesimo; non per questo scampata ad Auschwitz dove morirà di tifo a soli 39 anni, nel 1942.
Ed è proprio la complessità del percorso esistenziale e artistico della Némirovsky il principale motivo per cui è interessante leggere La nemica.
Romanzo breve giovanile pubblicato a puntate sulla rivista letteraria «Les Oeuvres libres» nel 1928 a nome di tale Pierre Nérey, La nemica è un abbozzo più che un'opera compiuta. I personaggi non penetrano né la mente né il cuore del lettore, tanto superficialmente e didascalicamente è delineata (non scavata) la loro psicologia, tanto sommariamente è costruito il loro 'carattere'. Dovrebbero accamparsi potenti, plastici; insomma vivi. Così non è. A una velocità disarmante, in una banalissima e gelida sequenza di cause-effetti, si succedono scene di vita che avrebbero potuto essere ben più cariche di senso. Manca un'elaborazione narrativa. Così che quasi nulla della scrittura della Nemica suscita forti pensieri o emozioni. E nulla sorprende. In misura stupefacente, semmai, quasi tutto è prevedibile ed evanescente.
Si tratta di un romanzo di formazione. Vi si racconta della giovane Gabri, abbandonata a sé stessa da una madre alla ricerca ossessiva di risarcimenti a un'esistenza di miserie, interamente dedita alla cura narcisistica della propria bellezza, preda di una passione morbosa e deviata per il fratello del marito. Il quale, ebreo, concentrato nel tentativo – vittorioso – di risollevare le sorti economiche della famiglia, è figura quasi del tutto assente. Il percorso di Gabri appare scontato. L'odio e il rancore nei confronti della madre cresceranno parossisticamente fino a un consapevole desiderio di vendetta, conducendo a uno scontato finale tragico.
Ecco allora: La nemica è un romanzo breve fallito proprio perché è un romanzo di formazione, e intimamente autobiografico. Non è necessario, seppure utile, sfogliare né le pagine della biografia dell'autrice (Olivier Philipponnat - Patrick Lienhardt, Vita di Irène Némirovsky, Adelphi, 2009) né il volume dedicatole dalla figlia (Elisabeth Gille, Mirador: Irène Némirovsky, mia madre, Fazi, 2011). Un'indicazione è già nello pseudonimo Nérey, anagramma di Irène. Tuttavia è nella narrazione la migliore e più convincente chiave per comprendere il 'fallimento' della Nemica.
Irène Némirovsky ha sollevato il velo sul rapporto tormentato con la madre cui è intitolato il romanzo. E, proprio mentre e perché si svelava, ha voluto nascondersi dietro a uno pseudonimo. L'impulso alla scrittura pare qui essere stato l'urgenza di raccontare e dunque vendicarsi – attraverso la parola scritta che sempre urla a voce alta perché davanti al mondo – di una madre irresponsabile ed egocentrica, ottusa e arida. Lo svolgimento piatto della vicenda e l'assenza di spessore dei personaggi appaiono come il frutto della primaria e prepotente urgenza di dire la propria verità per tentare una catarsi attraverso la letteratura. E forse così doveva in ogni caso essere, dato il radicale autobiografismo che rendeva arduo manipolare un materiale bruciante, doloroso, evidentemente non elaborato. Su cui l'autrice doveva correre, correre veloce, senza fermarsi troppo...
Vale comunque la pena leggere La nemica. Nonostante sia un romanzo di formazione fallito, l'autrice ci fornisce squarci di sé utili a comprendere la complessità e le contraddizioni della sua personalità e della sua opera. Ci svela qui un po', forse, come è diventata la scandalosa, imbarazzante a volte, tormentata Irène Némirovsky di David Golder.
Di là dal fatto che immaginare... sentire un cuore caldo pulsare (battendo forte? o rallentando il ritmo? sospendendolo quasi? quanto più possibile...) mentre la mano corre veloce sulla pagina perché altro non può fare (ché altrimenti quel cuore sarebbe sopraffatto? rischierebbe di affogare o frantumarsi? o ché quel cuore ordina di gridare solo il suo dolore, poco importa come...), questo sì emoziona. È un penetrare un'intimità. È, per quanto possibile, accedere a un mondo. Al microcosmo esistenziale e artistico che si dispiegherà, più ampiamente e compiutamente, più tardi.

Michela Matani

lunedì 6 maggio 2013

UT al Salone Internazionale del Libro di Torino



UT a Torino. Ci saremo. A breve, comunicheremo il giorno e l'ora della presentazione della rivista, presso lo stand della Regione Marche.
A proposito. Chi vuole collaborare con noi, può inviare i suoi racconti brevi, poesie, fotografie, fumetti, grafiche a:
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domenica 5 maggio 2013

"La camera di Chiara". Chiara Caselli in mostra alla Palazzina Azzurra fino al 25 aprile


Un minuto rubato a una passeggiata senza impegno, forse solo per schiarirsi le gambe e sgranchirsi la mente (si sa, noi passeggiatori quasi-solitari abbiamo qualche funzione scambiata). Ma la Palazzina è sempre lì, a tentarci con gli occhi, con i pochi e nascosti richiami per la vista che a noi, però bastano: “Chiara Caselli, Jubea e la camera chiara”. A pochi metri dall'ingresso non avverto ancora nessuna presenza, scorgendo dai vetri né presenze artistiche né umane. Sono forse in agguato dietro la porta d'ingresso per stupirci con una performance? Increduli, io e il mio amico siamo entrati con atteggiamento guardingo, subito fugato dalla vista dell'antico custode. Sì, c'è una mostra, ma non la solita e ridondante esposizione di quadri o manufatti, sempre tesi a riempire ogni parete e spazio per la paura di trascurare un qualsiasi proprio “segno” creato la sera prima. È un'immersione essenziale nel mondo immaginario di Chiara Caselli, attraverso pochissime “stanze” ridisegnate con francescano minimalismo. E in questo studiato rapporto, osserviamo una natura riflessa che a dir poco ci fa rivivere un Notturno di Chopin o una Serenade di Shubert. Immagini che richiamano una natura ancestrale senza esserne delineata, come in un riverbero liquido di Monet. Un modo di usare la “camera chiara” che ci avvince subito, dalla materialità impercettibile ma palpabile, di acqua e natura che solo una visionarietà astratta sa riprodurre o cogliere. Chiara Caselli, con la sua camera (“chiara" credo anche per il suo processo e percorso digitali), nella sala del primo piano, quella nascosta e ultima nella visita, propone un polittico formato da tre più tre scatti simmetrici alla figura centrale più grande: Passione 2011. Opera-prototipo (l'originale è stato presentato alla 54^ Esposizione d'Arte di Venezia) da analizzare in chiave certamente laica, dove la luce scolpisce dal nero la figura che si esalta, pur nella sua fugacità.

giovedì 2 maggio 2013

Concerto per violino (irlandese) solo


Rachel la si incontra a Bologna. Staziona dalle parti di Piazza Maggiore (a Bologna non potrebbe essere altrimenti). La sua presenza si inserisce fra quelle (numerose) degli artisti di strada, soprattutto musicisti, che quando arriva la primavera tornano a fiorire come le rose (o l'insalata) un po' dappertutto. Non sappiamo se Rachel abbia nel suo repertorio musica classica o pop o rock o blues o jazz... quello che abbiamo appurato è che le note che escono dal suo violino, viaggiano su e giù (come l'archetto) per l'Irlanda. È musica folk e t'immagini un Irish coffee che all'improvviso ti viene servito su un vassoio di latta marcato Guinness. Non brilla per particolari virtuosismi né per un look accattivante, anzi. Abitino nero appena sopra il ginocchio, sembrerebbe essere uscita direttamente dalla scuola delle Suore dei Sacri Cuori di Picpus. Incantata come se si trovasse al centro di una favola, una bambina seduta sul passeggino, segue Rachel dimenandosi come una piccola ossessa, evidentemente a lei quella musica piace in modo particolare. Non c'è verso di portarla via, di proseguire la passeggiata domenicale per le strade di Bologna e, quando la mamma ci prova, la bambina inizia a urlare che sembra una sirena. Rachel sorride, e sorridono anche le persone intorno che, intenerite da quella bambina appassionata di musica irlandese, tornano a offrire l'obolo con maggiore convinzione: 50 centesimi al posto di 20, in periodo di crisi è grasso che cola. Ce ne andiamo con il suono del violino nelle orecchie. Nel frattempo Rachel non ha cambiato canzone né ritmo. Però muovere un passo di danza ci starebbe tutto. Maledetto mal di schiena.