Vale
comunque la pena leggere La
nemica
(Elliot, 2013).
Di Irène Némirovsky si tratta. Scrittrice di talento (penso a
lavori intensi come Suite
francese e
allo stupendo e controverso David
Golder),
oltre che donna complessa e contraddittoria. Ucraina d'origine,
naturalizzata francese; di padre ebreo (come lo sarà il marito);
pungente critica nei confronti di certi aspetti della cultura ebraica
– il che in epoca post-Shoah non è certo gentilmente concesso –,
dunque imbarazzante se non scandalosa; tanto più che è ebrea lei
stessa, con l'aggravante di essersi convertita al Cristianesimo; non
per questo scampata ad Auschwitz dove morirà di tifo a soli 39 anni,
nel 1942.
Ed
è proprio la complessità del percorso esistenziale e artistico
della Némirovsky il principale motivo per cui è interessante
leggere La
nemica.
Romanzo
breve giovanile pubblicato a puntate sulla rivista
letteraria «Les Oeuvres libres» nel 1928 a nome di tale Pierre
Nérey,
La
nemica
è un abbozzo più che un'opera compiuta. I personaggi non penetrano
né la mente né il cuore del lettore, tanto superficialmente e
didascalicamente è delineata (non scavata) la loro psicologia, tanto
sommariamente è costruito il loro 'carattere'. Dovrebbero accamparsi
potenti, plastici; insomma vivi. Così non è. A una velocità
disarmante, in una banalissima e gelida sequenza di cause-effetti, si
succedono scene di vita che avrebbero potuto essere ben più cariche
di senso. Manca un'elaborazione narrativa. Così che quasi nulla
della scrittura della Nemica
suscita forti pensieri o emozioni. E nulla sorprende. In misura
stupefacente, semmai, quasi tutto è prevedibile ed evanescente.
Si
tratta di un romanzo di formazione. Vi si racconta della giovane
Gabri, abbandonata a sé stessa da una madre alla ricerca ossessiva
di risarcimenti a un'esistenza di miserie, interamente dedita alla
cura narcisistica della propria bellezza, preda di una passione
morbosa e deviata per il fratello del marito. Il quale, ebreo,
concentrato nel tentativo – vittorioso – di risollevare le sorti
economiche della famiglia, è figura quasi del tutto assente. Il
percorso di Gabri appare scontato. L'odio e il rancore nei confronti
della madre cresceranno parossisticamente fino a un consapevole
desiderio di vendetta, conducendo a uno scontato finale tragico.
Ecco
allora: La
nemica
è un romanzo breve fallito proprio perché è un romanzo di
formazione, e intimamente autobiografico. Non è necessario, seppure
utile, sfogliare né le pagine della biografia dell'autrice (Olivier
Philipponnat - Patrick Lienhardt, Vita
di Irène Némirovsky,
Adelphi, 2009) né
il volume dedicatole dalla figlia (Elisabeth
Gille, Mirador:
Irène Némirovsky, mia madre,
Fazi, 2011). Un'indicazione è già nello pseudonimo Nérey,
anagramma di Irène. Tuttavia è nella narrazione la migliore e più
convincente chiave per comprendere il 'fallimento' della Nemica.
Irène
Némirovsky ha sollevato il velo sul rapporto tormentato con la madre
cui è intitolato il romanzo. E, proprio mentre e perché si svelava,
ha voluto nascondersi dietro a uno pseudonimo. L'impulso alla
scrittura pare qui essere stato l'urgenza di raccontare e dunque
vendicarsi – attraverso la parola scritta che sempre urla a voce
alta perché davanti al mondo – di una madre irresponsabile ed
egocentrica, ottusa e arida. Lo svolgimento piatto della vicenda e
l'assenza di spessore dei personaggi appaiono come il frutto della
primaria e prepotente urgenza di dire la propria verità per tentare
una catarsi attraverso la letteratura. E forse così doveva in ogni
caso essere, dato il radicale autobiografismo che rendeva arduo
manipolare un materiale bruciante, doloroso, evidentemente non
elaborato. Su cui l'autrice doveva correre, correre veloce, senza
fermarsi troppo...
Vale
comunque la pena leggere La
nemica.
Nonostante sia un romanzo di formazione fallito, l'autrice ci
fornisce squarci di sé utili a comprendere la complessità e le
contraddizioni della sua personalità e della sua opera. Ci svela qui
un po', forse, come è diventata la scandalosa, imbarazzante a volte,
tormentata Irène Némirovsky di David
Golder.
Di
là dal fatto che immaginare... sentire un cuore caldo pulsare
(battendo forte? o rallentando il ritmo? sospendendolo quasi? quanto
più possibile...) mentre la mano corre veloce sulla pagina perché
altro non può fare (ché altrimenti quel cuore sarebbe sopraffatto?
rischierebbe di affogare o frantumarsi? o ché quel cuore ordina di
gridare solo il suo dolore, poco importa come...), questo sì
emoziona. È un penetrare un'intimità. È, per quanto possibile,
accedere a un mondo. Al microcosmo esistenziale e artistico che si
dispiegherà, più ampiamente e compiutamente, più tardi.
Michela Matani
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